Le Ali del Risveglio

Le Ali del Risveglio

Compassione e Saggezza

Ghesce Yesce Tobden (La Ruota del Dharma – 2014)

Nel dicembre del 1983 il ven. Ghesce Yesce Tobden accolse l’invito del Centro Lama Tzong Khapa di Villorba (ora con sede a Zero Branco, Treviso) di dare insegnamenti su I tre aspetti principali del sentiero, un breve testo di Lama Tzong Khapa (Tibet 1357-1419), lo straordinario Maestro, grande yogi ed erudito, fondatore della scuola Ghelug, la cui venuta fu profetizzata dallo stesso Buddha Shakyamuni, e delle cui opere possono beneficiare ancor oggi quanti sono interessati a una profonda ricerca interiore.

Quel suo testo è considerato la quintessenza delle scritture buddhiste, ed è riportato integralmente in questo volume e qui in BREVI TESTI E SUTRA

Tali spiegazioni del ven. Ghesce Yesce Tobden risultano preziose, poichè coloro che hanno avuto il privilegio di incontrarlo e ascoltarne dal vivo i profondi consigli hanno avuto la chiara percezione di essere in presenza di un Maestro di elevate realizzazioni, un meditatore che con azioni, parole, ma anche silenzi, forniva puri esempi di ciò che va perseguito e ciò che va abbandonato per rendere significativo il nostro passaggio in questo mondo.

Il secondo gruppo di insegnamenti raccolti in questo volume sono stati dati dal ven. Ghesce Yesce Tobden al Root Institute di Bodhgaya (India) dal 13 al 17 Dicembre 1996, e vengono qui presentati in cinque sezioni (relative a ciascuna di quelle giornate). Essi commentano (mettendone in luce il profondo significato globale e non quello dei singoli versi in dettaglio) un altro fondamentale testo di Lama Tzong Khapa L’essenza delle buone spiegazioni – una lode a Buddha Shakyamuni per il suo insegnamento sul sorgere dipendente.

Avendo attentamente studiato i trattati del grande pandita indiano Nagarjuna e dei suoi figli spirituali, riguardanti il significato definitivo degli insegnamenti di Buddha sull’autentica natura della realtà, Lama Tzong Khapa entrò in ritiro per meditarvi a fondo, e infine ne ottenne la perfetta e chiara realizzazione. Ispirato da quell’esperienza, compose in un solo giorno quel testo che, insieme alla versione estesa, rappresenta il cuore delle sue spiegazioni sui sutra.

Anche questo testo di Lama Tzong Khapa è riportato integralmente in questo volume e qui in BREVI TESTI E SUTRA

Estratto da Le Ali del Risveglio:
Commento a I tre aspetti principali del sentiero

Mi è stato chiesto di venire qui a trascorrere alcuni giorni, cosi ho pensato di usare il tempo in modo significativo insegnando un breve testo di Lama Tzong Khapa dal titolo I tre aspetti principali del sentiero.
Considerando gli 84.000 insegnamenti esposti dal Buddha, essi possono essere sintetizzati negli insegnamenti del lam-rim, e questi a loro volta essere visti secondo i seguenti tre aspetti:
 
• l’attitudine di voler emergere definitivamente dalla sofferenza dell’esistenza condizionata, ossia la rinuncia a essa;
• il pensiero altruistico di voler ottenere l’illuminazione, ossia la bodhicitta;
• la saggezza che ha la corretta comprensione della natura della realtà, ossia la visione della vacuità.
 
Si è già soliti dire che noi esseri umani siamo tutti uguali, per il fatto che tutti desideriamo evitare situazioni spiacevoli e ottenere ciò che è piacevole, e dal momento che non esiste un metodo esterno o materiale per soddisfare lo scopo che accomuna gli esseri nel cercare di eliminare il dolore, la pratica spirituale si rivela indispensabile.
Perché si afferma che tramite il sentiero spirituale è possibile andare al di là del dolore? Perché portando avanti un’analisi per individuare la causa radice della sofferenza scopriamo che si tratta della concezione errata che si afferra a una intrinseca esistenza dei fenomeni. Tale ignoranza è alla base di ogni sofferenza che noi sperimentiamo vivendo, ma può essere eliminata con la visione della saggezza che realizza la vacuità. 
Ci sono vari stati a cui possiamo aspirare: quello di un’esistenza fortunata, quello della liberazione personale e quello della perfetta illuminazione. Tali stati possono tutti essere ottenuti praticando il Dharma, ovvero gli insegnamenti del Buddha. Se in questa vita pratichiamo il Dharma, comportandoci in modo autentico ed evitando spontaneamente ciò che è dannoso, nella prossima vita otterremo un tipo di esistenza migliore, una condizione che non può essere comprata, ma unicamente acquisita attraverso la pratica spirituale.
Allo stesso modo, l’ottenimento della liberazione non è qualcosa che può avvenire in noi tramite oggetti esterni, bensì per mezzo della pratica dei tre addestramenti superiori di moralità, concentrazione e saggezza, e lo stato del completo risveglio di un buddha è ottenibile solo con la pratica delle sei perfezioni. 
Tale stato supremo, in cui si ha il massimo beneficio per noi stessi e per gli altri, è raggiungibile – lo ripeto – solo attraverso la pratica del sentiero spirituale; esso è il risultato di una accumulazione di energia positiva che da una parte dà la possibilità di realizzare il beneficio degli altri e dall’altra, con lo sviluppo della saggezza, realizza il proprio.
Come ho spiegato in altre occasioni riguardo all’esistenza delle vite passate e future, la ragione principale per sostenerlo sta nella diversità della natura del corpo e della mente.
Il corpo è costitutito da materia, da atomi, e quindi è già legato a un destino di disgregazione; la mente, invece, è libera da materialità e non è legata a questo processo. Sia il corpo che la mente hanno cause e condizioni particolari da cui sorgono: non sono fenomeni che nascono spontaneamente, senza alcuna causa. La mente che abbiamo ora è il frutto della mente che avevamo quando eravamo più giovani, la mente del bambino a sua volta è il risultato della mente del feto nel ventre materno, la mente del momento del concepimento è il risultato di quella precedente. Il primo momento della mente dell’essere concepito nel ventre della madre non sorge da solo o da cause materiali, ma deriva da una causa che ha la stessa natura della mente, cioè da un precedente istante di mente.
Ora, quando parliamo di cause, se ne distinguono di due tipi: cause sostanziali e cause circostanziali.
Quando piantiamo un chicco di frumento, questo chicco è la causa sostanziale per la spiga che si svilupperà, mentre la terra, il sole e l’acqua sono le sue cause circostanziali.
Allo stesso modo, quando ci riferiamo alla mente dell’essere appena concepito nel ventre della madre, essa ha una causa sostanziale che è della stessa natura della mente, e cause circostanziali. La causa sostanziale è la mente dell’essere dello stato intermedio, ossia quello che sperimenta una persona tra la morte e la successiva rinascita.
La causa sostanziale di un fenomeno che non è materiale deve essere anch’essa non-materiale. Se consideriamo che la mente del primo momento del concepimento dell’essere nel ventre materno deve avere una causa sostanzialmente identica, dobbiamo affermare che essa è ancora mente, un istante di mente precedente. E se consideriamo l’esistenza della mente già prima del momento del concepimento, dovremo anche ammettere l’esistenza di un vita precedente.
Lo stesso ragionamento è applicabile poi, al momento della morte. La mente non si disgrega come il corpo, ma continua, per poi assumere altre forme di esistenza. Se consideriamo il tempo dal punto di vista delle rinascite o dei cambiamenti di stati di esistenza della mente, ci troviamo di fronte ad un futuro che è lunghissimo. Invece, se consideriamo questa esistenza in relazione alle vite passate e future, essa risulta molto breve.
Le attività in cui siamo coinvolti in questa vita – come procurarci cibo, vestiti, fama, ecc. – sono utili, ma tale utilità è relativa alla presente esistenza. Se i nostri interessi in questa vita si limitano a questo genere di cose, e non ci impegniamo nel realizzare qualcosa per il nostro futuro, che è più lungo di questa nostra breve esistenza, ciò rappresenta davvero un grave errore. Pensare che oggi siamo contenti, e che questo ci basta, appare una cosa molto strana, perché ‘oggi’ costituisce solo una minima parte della nostra esistenza, mentre ‘domani’ è di certo la parte più importante e più lunga.
La mente del primo momento del concepimento nel ventre della madre ha come causa sostanziale la mente dell’essere dello stato intermedio, il quale possiede anche un particolare tipo di corpo; e tale corpo è appunto la causa circostanziale della mente del primo istante del concepimento.
Il prendere rinascita è determinato dalle predisposizioni che accompagnano il continuum mentale dell’essere e dalle sue afflizioni; ciò che invece libera da tale condizionamento è la pratica del Dharma.
È necessario affrancarsi dall’esistenza condizionata per il semplice fatto che ha una natura indesiderabile, e una volta che ci si sarà riusciti si sarà ottenuta la propria liberazione individuale.
Tuttavia ciò non è sufficiente, poiché è indispensabile anche realizzare il beneficio degli altri, e per far ciò è necessario ottenere la completa illuminazione. Lo stato del completo risveglio di un buddha si raggiunge tramite la pratica del Dharma, quindi per prima cosa occorre comprendere che cosa esso sia.
Già ho detto all’inizio che il contenuto del Dharma può essere condensato ne I tre aspetti principali del sentiero. Questo testo è stato composto da Lama Tzong Khapa e apre con il seguente verso: “Porgo omaggio ai venerabili Maestri”.
Egli spiega che, come il burro è la quintessenza del latte, così il lam-rim – il sentiero graduale verso l’illuminazione – è il cuore di tutti gli insegnamenti dati dal Buddha.
Il sentiero graduale è stato elogiato da tutti i bodhisattva, ed è la guida per tutti i fortunati che hanno il desiderio di praticare il Dharma, di andare al di là della sofferenza e di raggiungere l’illuminazione. Esso rende significativa la nostra vita – questa esistenza umana che abbiamo ottenuto – e compiace tutti i buddha e i bodhisattva.
Con il termine ‘fortunati’ si va a indicare coloro che trovano gioia nella pratica del Dharma, poiché ‘essere fortunati’  in effettinon significa semplicemente avere ottenuto questa esistenza, ma essere interessati alla pratica spirituale.
Il testo raccomanda che questo insegnamento sia esposto solo a coloro che hanno il desiderio di praticare, e non a coloro che non lo apprezzano. Se spieghiamo il Dharma a qualcuno che non desidera ascoltarlo o praticarlo, non facciamo altro che irritarlo, e in questo modo lo mettiamo nella condizione di accumulare karma negativo. All’inizio Buddha insegnò solo a poche persone, e ad altre nemmeno espose il Dharma; questo non perché nutrisse amore verso alcuni in particolare e volesse tenere lontani altri, ma perché comprendeva che qualcuno poteva praticare il suo insegnamento, mentre qualcun altro non era in grado di apprezzarlo in quel particolare momento. 
Noi che siamo qui ora nutriamo tutti interesse per la pratica del Dharma, e in tal senso possiamo considerarci fortunati e gioirne. Ad ogni modo la pratica del Dharma è utile sia per realizzare ciò che desideriamo in questa vita, che per realizzare scopi più profondi.  Attualmente abbiamo questo desiderio di praticare, perciò siamo delle persone molto fortunate. 
Il testo prosegue dicendo che dobbiamo considerare la nostra esistenza per quello che effettivamente è: un grande oceano del quale siamo in balia, o una foresta in fiamme in mezzo a cui ci troviamo intrappolati, o una prigione in cui siamo stati rinchiusi. A causa dell’attaccamento all’esistenza, tutti coloro che hanno un corpo nuotano – per così dire – nell’esistenza condizionata; quindi è importante partire dal riconoscere tale stato condizionato in cui viviamo. Se siamo in prigione e consideriamo il luogo come indesiderabile, allora svilupperemo anche il desiderio di uscirne, di evadere. Viceversa, se un prigioniero non considera negativa la sua mancanza di libertà, ma ritiene la sua prigione un luogo piacevole, non proverà mai il desiderio di scappare, e resterà in carcere a lungo.
Similmente, se non siamo consapevoli dei limiti di questa vita condizionata, del modo in cui noi esistiamo, allora non genereremo mai il desiderio di andare oltre. Mancando di consapevolezza riguardo all’autentica natura dell’esistenza, non faremo alcuno sforzo per applicare i metodi per eliminare questo condizionamento, e così sarà più lungo il tempo in cui continueremo a esserne soggetti.
Condizionati e limitati dalle nostre attitudini negative, non importa quale sia lo stato di esistenza in cui ci troviamo, questo in sostanza non sarà altro che della natura del dolore. Anche se diventeremo molto ricchi la natura della nostra esistenza non andrà al di là del dolore, e se rinasceremo come persone povere saremo ancora più immersi nella sofferenza.
Sentendo parlare dell’esistenza condizionata non dobbiamo farcene un’immagine come di un ambiente molto vasto, per esempio il mondo in cui ci troviamo. Essa non ha nulla a che vedere con il mondo esterno, bensì con il nostro corpo e la nostra mente attuali, con ciò che costituisce la nostra persona, ossia con i nostri aggregati contaminati. Sono questi il nostro samsara, la nostra esistenza condizionata.
Quando abbiamo freddo sperimentiamo disagio, quando abbiamo caldo sperimentiamo disagio, così sulla base del corpo sorge sofferenza. Abbiamo bisogno di mangiare, di coprirci, di stare al caldo ma, non importa di quanto ci curiamo del nostro corpo, prima o poi si ammalerà, prima o poi invecchierà, prima o poi morirà. In tale esistenza questo corpo ci procura molta sofferenza. Non solo: per sopravvivere bisogna intraprendere attività che ci fanno generare sentimenti di attaccamento o di avversione verso cose e persone, quindi esso è la base sia della sofferenza che sperimentiamo che di quella che sperimenteremo.
Esiste un livello di esistenza – che si ottiene tramite la pratica del Dharma – in cui non si assume più un corpo come quello che abbiamo ora, contaminato dalle attitudini negative, e a quel punto si è raggiunta la libertà dalla sofferenza; però fino ad allora la sofferenza per noi è una cosa garantita, dal momento che il ciclo delle continue rinascite condizionate implica l’esistenza basata su un corpo.
Il corpo che possediamo è dovuto alle nostre predisposizioni e attitudini negative, che hanno come causa la concezione che si afferra a una vera esistenza dei fenomeni. Fino a quando non rimuoveremo tale concezione errata dalla nostra mente, esisterà sempre in noi la causa della sofferenza. Tramite la pratica del Dharma, però, si sviluppa la saggezza che realizza la vacuità, ossia la saggezza che è l’opposto della falsa concezione che apprende una vera, autonoma e indipendente esistenza dei fenomeni. Generando tale saggezza, la concezione errata viene eliminata, e così vengono eliminate anche le attitudini negative  che sorgono e si accumulano a causa di essa e le relative predisposizioni mentali; di conseguenza, la base del dolore svanisce.
Ora, per generare questa saggezza è necessario innanzi tutto avere aspirazione per l’emersione definitiva, l’attitudine che anela a ottenere la libertà dal samsara. E il samsara, nel Buddhismo, viene appunto definito come la mancanza di libertà propria all’esistenza condizionata, un esistere senza avere una vera libertà di scelta. Noi veniamo gettati nell’esistenza senza che lo desideriamo, e in questo senso manchiamo di libertà di scelta, così come manchiamo di libertà quando questo corpo invecchia e non possiamo fare nulla per arrestare tale processo; e manchiamo di libertà anche perché dovremo comunque lasciare questa esistenza e morire.
Tale mancanza di libertà si fonda su ciò che costituisce la nostra persona, gli aggregati psicofisici, e si può identificare con gli aggregati psicofisici stessi che ci compongono. L’esistenza condizionata è proprio questo ciclo di continue rinascite (caratterizzate da vecchiaia, malattia e morte) a cui siamo soggetti senza avere possibilità di scelta.
Se pur avendo una mente analitica e acuta non riuscissimo a realizzare qualcosa di veramente elevato sarebbe una grande perdita. Ciò che va inteso con ‘obiettivo elevato’ è lo stato di un buddha, e occorre conoscere la via o il modo tramite il quale raggiungerlo. Ebbene, nel sentiero graduale sono necessari due aspetti della pratica: l’aspetto del metodo (che riguarda lo sviluppo di bodhicitta) e l’aspetto della saggezza (la mente che realizza la vacuità).
Per far sorgere nella propria mente la disposizione altruistica che aspira all’illuminazione è necessario avere una grande compassione, che può scaturire solo sulla base della generazione di un forte desiderio di uscire dal samsara.
Come ho già detto, questa attitudine si riferisce al non attaccamento verso la felicità o piacere che si può acquisire in questa esistenza e nel ciclo delle varie esistenze, accompagnata dal desiderio di ottenere la liberazione. Per generare un’attitudine priva di attaccamento ai piaceri di questa vita è necessario meditare sulla rarità dell’ottenimento di una preziosa rinascita umana e avere consapevolezza della morte e dell’impermanenza. Solo sulla base di tale consapevolezza possiamo cogliere la grande opportunità che abbiamo di praticare il Dharma, cosa che ci sarebbe negata in un’esistenza animale, divina o infernale.
Una delle libertà di questa rinascita umana è quella di essere nati in un ‘paese centrale’. Tradizionalmente, ci si riferiva in tal modo all’India – in particolare alla zona di Bodhgaya, che è il luogo migliore se si vuole prendere l’ordinazione da monaco – ma in generale si può definire come ‘paese centrale’ un luogo dove dimorano dei monaci pienamente ordinati; quindi, anche l’Europa può ora essere considerata tale. 
Altre ‘libertà’ sono il non essere nati in un paese barbarico, avere gli organi dei sensi integri (ossia avere la possibilità di udire, vedere, ricordare), non avere visioni distorte (per esempio pensare che la pratica del Dharma non sia fruttuosa). Ed è proprio per via di tali libertà, o opportunità, che si identifica questa esistenza umana come estremamente favorevole e la si definisce ‘preziosa’. Ci sono poi dieci particolari caratteristiche che le sono proprie, di cui cinque riguardano se stessi e cinque sono esterne, o circostanziali.
Le prime sono: essere nati come umani; essere nati in un paese centrale; avere gli organi sensoriali completi; non avere commesso le azioni difficili da espiare (uccidere il padre, uccidere la madre, uccidere un arhat, far sanguinare il corpo di un Buddha, provocare uno scisma nel sangha); avere una fede naturale nel Dharma. Le  caratteristiche esterne sono: la venuta di un buddha nel nostro mondo; l’avere egli dato insegnamenti (e anche se non è stato possibile per noi vedere direttamente il volto del Buddha storico, esistono tuttavia diverse sue emanazioni, che insegnano il Dharma del Buddha stesso); che la sua dottrina non sia ancora degenerata; che ci siano esseri che hanno generato esperienze di Dharma dentro di sé, cioè seguaci dell’insegnamento di Buddha; la presenza di persone che sostengono e procurano condizioni favorevoli affinché ci si possa impegnare nella pratica spirituale.
Queste ‘dieci ricchezze’ che attualmente possediamo, in tutta la nostra esistenza samsarica non si erano mai presentate insieme, e sarà molto difficile  che lo siano di nuovo in futuro.
Tale preziosa rinascita umana dotata di tutte le fortunate caratteristiche descritte è difficile da ottenere ed è passeggera, inoltre non c’è la possibilità di determinare quanto vivremo e quando moriremo. Le ‘dieci ricchezze’ ci sono ora, ma non abbiamo alcuna garanzia che durino a lungo, perciò tale riflessione dovrebbe indurci a pensare: “Avendo considerato tutto ciò, di certo non vi è nulla di superiore alla pratica del Dharma!”
Potremmo pensare di posticipare la pratica del Dharma nel futuro, quando avremo più tempo, quando saremo più anziani, ma questo pensiero non è realistico, perché non sappiamo non sappiamo quando moriremo, e se vivremo fino a tarda età.
Riflettendo così, dovremmo familiarizzare la mente con la consapevolezza delle difficoltà di ottenere un’altra preziosa esistenza umana e dell’impermanenza; tramite ciò sorgerà un sentimento di urgenza nel praticare il Dharma, di come la cosa migliore sia praticarlo subito, e di conseguenza ciò eliminerà l’attaccamento verso i piaceri di questa esistenza.
D’altra parte, se ci si proietta nel futuro col desiderio di ottenere un tipo di esistenza particolarmente felice – come quelle divine e così via – ebbene anche questo tipo di attaccamento dovrebbe essere eliminato, considerando sempre il nesso di causalità esistente tra le esperienze che si fanno e le specifiche precedenti azioni che le hanno prodotte. Noi siamo umani, e sappiamo che in qualsiasi nostra condizione vi è sempre dolore, sia che siamo fortunati o miserabili.
Ugualmente, ci sono stati di esistenze divine – come quelle dei semidei – dove anche se non è presente nessun tipo di sofferenza simile a quella umana, ve ne sono altre legate alla gelosia, con continui dolorosi conflitti con le classi superiori di deva.
E anche per questi ultimi, pur sperimentando nella loro esistenza alti livelli di piacere e felicità, definita appunto ‘divina’, al momento in cui sopravvengono i segni che precedono la morte e la successiva rinascita in un sicuro tipo inferiore di esistenza, si manifesta una tremenda sofferenza.
Sette giorni prima di morire, quando se ne annunciano i segni, gli amici e i familiari non si avvicinano più a loro; il corpo comincia ad avere un cattivo odore, in contrasto con quello gradevole che prima emanava, le ghirlande di fiori che tali deva portano al collo cominciano ad appassire; inoltre, essi possiedono un certo tipo di chiaroveggenza che li rende consapevoli del loro successivo sfavorevole luogo di rinascita (dovuto al fatto che il loro karma positivo si è esaurito e sta per maturare quello negativo), e conoscere il destino che li aspetta è causa di indicibile sofferenza. Tutto ciò accade in sette dei loro giorni, che in termini di tempo umano sono lunghissimi, infatti cinquant’anni di esistenza umana equivalgono a un giorno di esistenza divina; quindi i deva soffrono in questo terribile modo per circa 350 anni degli uomini.
Ci sono altre classi di deva che, relativamente al loro specifico reame di esistenza, in prossimità del tempo della successiva rinascita dimorano in questo stato di sofferenza per un periodo ancora più lungo. Anche tali tipi di esistenza più felice, auspicabili per il nostro futuro, dunque non sono altro che esistenze transitorie destinate comunque a finire, facendoci poi ricadere in basso, esattamente come una freccia al termine del suo tragitto, dopo essere stata scagliata.
Basandoci su queste considerazioni dovremmo abbandonare l’attaccamento verso quanto potrebbe essere ottenuto o goduto nelle esistenze future, che in ogni caso non è soddisfacente.
E quando la nostra mente è focalizzata giorno e notte, spontaneamente e ripetutamente, sul senso di tutto ciò, allora si dice che l’attitudine dell’emersione definitiva – o rinuncia – è stata generata. Tale attitudine, scaturita da quel tipo di analisi riguardo agli effimeri piaceri di questa vita e dal desiderio di ottenere a tutti i costi la libertà dall’esistenza condizionata, da sola non è però in grado di condurci allo stato del completo risveglio, e occorre allora che sulla sua base si sviluppi il pensiero altruistico che aspira all’illuminazione. Per generare tale pensiero è necessario avere una grande compassione, che sorge dall’avere a cuore la sofferenza degli altri.
Se si arrestasse un ladro, lo si legasse e mettesse di notte in una botte di acqua fredda, di certo proverebbe un’enorme sofferenza; ebbene, il suo stato è simile a quello in cui ci troviamo noi a causa di concezioni distorte come l’attaccamento a questo tipo di esistenza o a quelle di reami superiori, l’afferrarsi al sé, seguire discipline erronee pensando che siano il metodo per la liberazione, credere in una natura permanente dei fenomeni, e l’ignoranza in generale.
Come il ladro dell’esempio ha le mani legate da una corda, similmente noi siamo legati da diverse predisposizioni, positive o negative, che condizionano la nostra mente. La botte simbolizza la concezione che si afferra al sé, un ambiente ristretto in cui siamo costretti a esistere senza possibilità di fuga. In aggiunta, i nostri occhi sono bendati dalla confusione, dall’ignoranza che apprende le cose in modo confuso e che ci impedisce di mettere in pratica dei metodi per sfuggire da questa situazione. E anche siamo continuamente afflitti dai tre tipi di sofferenza:
• la sofferenza del dolore;
• la sofferenza del cambiamento, che appare come piacere (nella continua nostra ricerca di soddisfare il corpo attraverso ogni tipo di confort, o la mente attraverso gioie effimere), ma che si rivela poi di nuovo come fonte di disagio;
• la sofferenza onnipervasiva – che si riferisce ai nostri aggregati – ossia la condizione propria al nostro corpo (sempre sul punto di provare sofferenza) e quella psicologica (per essere sempre soggetti a conflitti e dispiaceri).
Quando si riconosce la natura dell’esistenza condizionata e se ne riconoscono i difetti, sorge la rinuncia, ossia il desiderio di abbandonarla, per ottenere la liberazione. 
Ora, se dopo avere considerato la nostra personale condizione guardiamo a quella altrui, ci rendiamo conto che tutti gli esseri sono esattamente nella stessa situazione, e sorge allora il desiderio che anche loro siano liberi da ogni sofferenza e possano godere della gioia della liberazione. Tale pensiero è la compassione e, acquisendo familiarità con essa, si genera anche quel coraggio che si assume la responsabilità di essere proprio noi a liberare tutti gli altri da ogni tipo di dolore.
In realtà, ora non siamo in grado di portare alla liberazione neanche un singolo essere, ma con lo sviluppo di questa grande compassione, che desidera proteggere gli altri e ci fa assumere la responsabilità di liberarli tutti, si individua l’effettiva ed escusiva possibilità di riuscirci avendo lo stato di un buddha.
Per generare quel pensiero altruistico esistono due metodi: sostituire l’interesse che abbiamo per noi stessi con l’interesse per gli altri – in altri termini ‘scambiare se stessi con gli altri’ – e il metodo delle ‘sei cause e un effetto’, sulla base del riconoscere ogni essere come una nostra gentile madre.
Tuttavia l’attitudine dell’emersione definitiva (la rinuncia) e la grande compassione (il pensiero altruistico dell’illuminazione, la bodhicitta) non sono ancora sufficienti, e da soli non possono portarci allo stato della buddhità: è infatti necessario acquisire la visione che comprende e realizza il modo ultimo di esistenza dei fenomeni e delle persone, e la loro interdipendenza, ed è così in grado di tagliare la radice del samsara, ossia l’ignoranza che si afferra a un’intrinseca esistenza dei fenomeni.
La rinuncia e la bodhicitta non sono due tipi di menti in contrapposizione con la concezione errata che si afferra a una vera esistenza dei fenomeni, quindi non rappresentano un antidoto diretto a essa: come specifico opponente all’ignoranza che concepisce i fenomeni come realmente esistenti occorre sviluppare la saggezza che realizza la vacuità. 
Con ‘vacuità’ non si intende il frutto di concettualizzazioni o di costruzioni mentali, che all’inizio non esisteva e poi sì, ma qualcosa presente prima della generazione di un qualsivoglia fenomeno.
In pratica, sebbene si percepisca un modo autonomo, vero, concreto, di esistenza dei fenomeni, ciò è in realtà privo di fondamento. È simile a ciò che accade, per esempio, quando un illusionista crea le fattezze di una bellissima donna e, anche se l’immagine si riferisce a una donna non reale, gli spettatori che la guardano credono che lo sia; poi, attratti dalla bellezza di tale donna illusoria, sviluppano attaccamento e desiderio di possederla. Sebbene lì non ci sia una donna effettiva, dal momento che la si considera come esistente lì di fronte possono sorgere attaccamento e bramosia; se invece la si percepisce come effetto di una magia, se si appura che non c’è nessuna donna bellissima, naturalmente non sorgerà neppure attrazione per lei. 
Ancora – facendo un altro esempio – se in un luogo buio lasciamo un tubo striato, qualcuno passando potrà scambiarlo per un serpente ed esserne spaventato. La paura, comunque, potrà sussistere solo finchè si crede che il tubo sia un serpente, ma quando si riconosce che lì non c’è nessun serpente bensì solo un tubo arrotolato, allora anche la paura svanirà.
In pratica, nei due esempi, vediamo che la comprensione che la donna bellissima non è esistente fa svanire l’attaccamento, mentre la comprensione che la forma simile a un serpente non è altro che un tubo striato fa svanire la paura. 
Proprio come nell’esempio del tubo striato (anche se non è un serpente, vi è tuttavia una mente che lo scambia per esso), e della donna creata dall’illusionista (anche se non esiste realmente, c’è però una mente che crede che esista così come appare), allo stesso modo ogni fenomeno, sebbene appaia come veramente esistente, in effetti non lo è. Tuttavia, nonostante sia questa la realtà, la concezione che si afferra a una vera, intrinseca, esistenza dei fenomeni crede in tale loro falsa modalità di esistenza, e di conseguenza si vanno a generare particolari reazioni emotive, per non dare adito alle quali è necessario che la mente sia coscia che le apparenze di vera esistenza dei fenomeni non corrispondono a realtà.
Tale mente è la saggezza che comprende come i fenomeni non esistono intrinsecamente, che realizza la loro non ‘vera’ esistenza, quella mente che diviene consapevole di qual è la loro natura ultima, una natura che esisteva già prima che venisse compresa dalla saggezza stessa. Sviluppando la consapevolezza che i fenomeni mancano di una ‘vera’ esistenza, si indebolisce la forza della falsa concezione che li considera veramente esistenti, e con essa anche la forza delle emozioni negative.
I fenomeni in realtà sono mere designazioni nominali di una mente concettuale su una base valida, ma la nostra mente li concepisce erroneamente come aventi un’esistenza a sé stante.
La mente che comprende che ogni fenomeno esiste solo ed esclusivamente come designazione è la saggezza che realizza la vacuità, la quale è in diretta antitesi con la mente che apprende i fenomeni come intrinsecamente esistenti.
Non appena la saggezza che realizza la vacuità sorge, la falsa concezione che si afferra ai fenomeni come intrinsecamente esistenti scompare; essa non può invece essere eliminata dal pensiero altruistico che aspira all’illuminazione. Infatti, in questo suo testo, Lama Tzong Khapa spiega che se non si dimora nella consapevolezza della natura ultima dell’‘io’ e dei fenomeni, anche se si medita su bodhicitta o sulla rinuncia, sarà impossibile tagliare la radice del samsara, per questo è importante generare la profonda comprensione della vacuità.
D’altra parte, senza bodhicitta non è impossibile realizzare la vacuità, infatti molti ci arrivano senza averla generata; per esempio, quanti hanno un orientamento hinayana possono realizzare la vacuità praticando il loro particolare sentiero, ma non sviluppano il pensiero altruistico del risveglio.
Una volta uno studente osservò che in un certo senso l’attitudine altruistica fa diminuire l’interesse per se stessi, e che in questo senso può essere un antidoto alla concezione che si afferra all’‘io’. Ora, è naturale che diminuisce la disposizione a prendersi cura di se stessi, tuttavia l’attitudine autogratificante che si prende cura dell’‘io’ è diversa dalla concezione che apprende una vera esistenza dell’‘io’ e dei fenomeni. Questa concezione errata vede i fenomeni come aventi un’esistenza a sé stante, con caratteristiche proprie, senza alcun rapporto con la mente che designa tali caratteristiche, invece l’attitudine che si prende cura di se stessi è la mente che pensa: “ Sono più importante degli altri!”
 È possibile realizzare la vacuità senza aver generato la mente altruistica di bodhicitta, ma essa così può portare solo alla libertà dal samsara, non all’ottenimento della buddhità. Allo stesso modo, non porta all’ottenimento dello stato di un buddha il solo pensiero altruistico privo della realizzazione della vacuità.
Per raggiungere lo stato del risveglio sono necessarie due ‘ali’:  la grande compassione e la saggezza che realizza la vacuità!
Per eliminare la concezione che si afferra a una vera esistenza dei fenomeni occorre comprendere che tale oggetto appreso da questa falsa concezione è inesistente (3).
Consideriamo la saggezza che comprende la mancanza di ‘vera’ esistenza di un fenomeno, per esempio di un vaso; ebbene, focalizzandosi sul vaso come suo oggetto di referenza, essa entra in contraddizione diretta con l’ignoranza che concepisce il vaso come veramente esistente. In pratica, la saggezza che percepisce la vacuità apprende i fenomeni in un modo che è in antitesi con quello dell’ignoranza che si afferra a una vera esistenza dei fenomeni.
L’altro aspetto della vacuità è il sorgere dipendente (o originazione interdipendente), che si può comprendere in vari modi. Si può parlare di sorgere dipendente di un fenomeno quando esso ha origine da cause e condizioni. Proprio perché questo particolare oggetto è stabilito sulla base di cause e condizioni, non può avere un’esistenza autonoma, non è venuto a esistere in modo indipendente, bensì dipendente, infatti se fosse autonomo non dipenderebbe dalle sue cause e condizioni.
Affermare la non-dipendenza delle cose equivale ad affermare la loro ‘vera’ esistenza, un loro modo di esistere privo di interdipendenza. Quando una cosa sorge dalle sue proprie cause e condizioni, ciò esclude una sua ipotetica non-dipendenza, quindi la non-dipendenza delle cose è in diretta antitesi con il loro esistere in dipendenza. 
Ci sono vari livelli di interpretazione della locuzione ‘sorgere dipendente’. Nelle scuole filosofiche hinayana Vaibhashika e Sautrantika esso viene spiegato esclusivamente riferendosi al sorgere da cause e condizioni dei fenomeni funzionali (o composti, impermanenti). Nella scuola mahayana Madhyamaka-Svantatrika ha un significato più esteso, nel senso che si parla di ‘sorgere dipendente’ non solo riguardo ai fenomeni funzionali – i quali sorgono da cause e condizioni – ma si dice che tutti i fenomeni sono sorgere dipendente in quanto stabiliti anche in relazione alle proprie parti, cioè esistono in dipendenza anche delle proprie parti.
Quando guardiamo la nostra mano si può dire che essa è un fenomeno stabilito dalle sue parti, infatti possiamo parlare di ‘mano’ quando consideriamo le sue parti: il palmo, le dita, ecc. Quando prendiamo in considerazione la ruota di un carro, con i suoi raggi, il mozzo, il cerchione, essa esiste in dipendenza di queste parti, e possiamo parlare di ‘ruota’ solo quando sono tutte presenti. Allo stesso modo, se parliamo di un anno, tale anno è un qualcosa che esiste esclusivamente perché abbiamo la concezione di ‘mesi’, ‘giorni’, e così via: è pensando a dodici mesi che abbiamo l’idea di un ‘anno’. Quindi l’anno esiste in relazione i suoi dodici mesi, che costituiscono le sue parti.
Anche nella scuola Madhyamaka esistono delle differenze nel livello di profondità di visione relativa al ‘sorgere dipendente’.
I Madhyamika-Prasangika, gli esponenti della scuola filosofica più alta, in aggiunta agli assunti delle visioni precedenti stabiliscono un’interdipendenza di tipo sottile, cioè l’esistenza dei fenomeni in dipendenza anche della mente che li designa, anzi nel sistema Madhyamaka-Prasangika i fenomeni sono ‘sorgere dipendente’ principalmente perché designati da una mente concettuale che apprende e poi dà un nome alle loro rispettive basi.
Poiché ogni fenomeno è esclusivamente una designazione, o nome, attribuito dalla mente, si va a escludere così un’esistenza non-dipendente dei fenomeni, un’esistenza a sé stante, un’esistenza che poggia su caratteristiche intrinseche, proprie, autonome, del fenomeno stesso. Quando, ad esempio concepiamo noi stessi, la nostra persona, e diciamo ‘io’, questo ‘io’ è un qualcosa che nominiamo sulla base dei nostri aggregati psicofisici; è sulla base di questi che ci riferiamo a noi stessi come ‘io’.
Se consideriamo ciò che compone una persona, ne osserviamo il corpo e la mente, ma né l’uno né l’altra possono essere considerati la persona stessa, o il sé della persona; la mente, in particolare, non può essere considerata come la persona.
Questo pensiero di ‘io’, o concezione di un nostro sé, di noi stessi come persona, nasce esclusivamente sulla base del nostro corpo e della nostra mente. Quando diciamo: “Sto bene”, “sono contento”, “sono malato”, tutte queste affermazioni comportano un’idea di ‘io’ – in questo caso di un ‘io’ esistente – però questo ‘io’ è qualcosa che sorge sulla base di una mente e di un  corpo. Tuttavia, se continuiamo ad analizzare per stabilire chi sia questo ‘io’ che sta bene o che è malato, non possiamo individuarlo in un particolare aspetto del corpo o della mente, quindi sia il corpo che la mente possono essere visti esclusivamente come base di designazione o di apprendimento di questo ‘io’, ma non essere identificati con esso.
In sintesi, vi sono tre aspetti del nostro esistere in dipendenza, nel senso che dipendiamo da una coscienza che attribuisce un nome sulla base della nostra mente e del nostro corpo, dipendiamo dalle parti di cui siamo composti, dipendiamo dalle cause e condizioni che ci hanno prodotti.
Questa triplice dipendenza dell’‘io’ – e dei fenomeni composti in generale – esclude la loro non-dipendenza. Se invece esistessero nel modo in cui sono appresi dall’ignoranza che si afferra a una loro vera esistenza, allora questo escluderebbe la loro dipendenza, cioè non sarebbero originati dalle rispettive cause e condizioni, non esisterebbero dipendendo dalle loro parti, nè da una mente che li designa attribuendo un nome.
Quindi, quando pensiamo ai fenomeni composti, comprendendo che essi sorgono da cause e condizioni escludiamo una loro autonomia, oggetto dell’ignoranza che li apprende come esistenti dal loro proprio lato. Poi, considerando che tutti i fenomeni sono tali anche in relazione alle loro parti, escludiamo ulteriormente la loro non-dipendenza. Infine, escludiamo una loro esistenza intrinseca considerando come tutti i fenomeni sono esistenti per via dell’attribuzione di un nome su una base valida da parte di una coscienza.
È necessario contemplare i tre modi in cui i fenomeni sorgono in dipendenza (4), accertandone esattamente le ragioni, e rendendosi conto delle contraddizioni insite nel considerarli intrinsecamente esistenti. Così facendo si arriva a una chiara comprensione dell’altro aspetto sotteso alla vacuità: che tutti i fenomeni sono ‘sorgere dipendente’; e ciò fa generare una convinzione autentica riguardo alla loro vacuità. 
Provate a chiedervi, dunque, se i fenomeni impermanenti sono esistenti dipendendo dalle loro cause e condizioni, o se sono indipendenti e hanno un’esistenza a sé stante, autonoma.
I primi due aspetti dell’interdipendenza sono abbastanza facili da comprendere: se si considera un fenomeno composto, impermanente, è facile capire che per la sua esistenza dipende da cause e condizioni, ed è anche facile capire che esiste in relazione alle proprie parti; per esempio, nel caso di una ruota, se eliminiamo le parti sarà impossibile parlare di ruota.
Ma in che modo i fenomeni esistono come mera designazione della mente?
Ebbene, per provare che i fenomeni esistono come designazione della mente immaginiamo di avere di fronte una persona che identifichiamo come ‘nemica’. Ora, questo implica la visione di un tale nemico come esistente veramente, dalla sua propria parte. Se un nemico realmente esistente ci fosse, se esistesse esternamente senza bisogno di essere designato come tale dalla nostra mente concettuale, allora dovremmo trovarlo. Ma se analizziamo il suo corpo e la sua mente, non riusciremo a trovare niente che possa essere considerato come il ‘nemico’.
Quando si analizza un qualsiasi fenomeno per trovarlo – così come lo concepiamo – nelle sue proprie parti, non ci si riuscirà. E non essendo esso identificabile nemmeno con l’insieme delle sue parti, non rimane che la sola possibilità che il fenomeno sia designato dalla mente sulla base di quelle sue specifiche parti.
Ritornando all’esempio, neppure se si cerca quel nemico nei suoi fattori mentali, lo si riesce a trovare: c’è solo la nostra mente che in qualche modo designa l’esistenza di un ‘nemico’, che etichetta come tale quella determinata persona. D’altra parte, non si può dire che il nemico non esiste, perché c’è effettivamente qualcuno che può danneggiare; il nemico esiste, ma non esiste come entità indipendente dalla mente che lo designa, non c’è un nemico dalla sua propria parte che esiste indipendentemente dalla mente che pensa: “Quello è un nemico” e che fa sì che in quel particolare momento quel nemico sia stabilito. 
Allo stesso modo, anche qualcuno che ci aiuta, che ci beneficia, che ha grande gentilezza verso di noi, anche questo tipo di persona ‘amica’ non esiste in modo autonomo, ma è tale perché noi la etichettiamo con quel nome particolare.
Se esistessero un nemico e un amico a sé stanti, non dipendenti dal modo in cui la nostra mente li apprende, allora i nemici non si potrebbero tramutare in amici, e viceversa. E invece essi cambiano il loro ruolo, proprio perché sono dipendenti e non esistono in maniera autonoma.
I capi di governo sono eletti nel momento in cui si è conclusa la votazione, quindi non sono primi-ministri prima che venga deciso che abbiano quel ruolo: sono etichettate come quel tipo particolare di persone da una mente che li apprende solo a quel punto come tali.
Similmente, se offriamo del té a una persona a cui piace molto, lei lo considererà ‘buono’, mentre se lo offriamo a un’altra che non lo apprezza, per lei sarà ‘sgradevole’.
Anche quando parliamo di persone alte o basse, le definiamo in questo modo in termini di paragone, mentre se una persona fosse alta indipendentemente da una bassa – e non tale in confronto a una ritenuta bassa – allora dovrebbe essere alta sempre e per tutti.
Ancora, quando parliamo di una montagna che ora ci sta di fronte – se la guardiamo dalla montagna che si trova dalla nostra parte – il nostro modo di indicarla è variabile, dipendente, infatti se poi ci trasferiamo sulla montagna di fronte, allora essa non sarà più quella ‘di fronte’ bensì quella ‘dalla nostra parte’, e quella che prima era la montagna ‘dalla nostra parte’ diventerà la montagna ‘di fronte’.
Questo medesimo tipo di riflessione dovrebbe essere applicato a noi stessi, perché generalmente quando noi consideriamo la nostra persona sorge un certa idea di ‘io’; però dovremmo analizzare in quale modo questo ‘io’ esiste, investigando se si tratta di un sé autonomo o se può essere identificabile con qualche aspetto psicofisico di cui siamo composti.
Ebbene, questa persona esiste, noi stessi esistiamo, e non possiamo negare che quando diciamo: “Io vado” questa espressione sia sensata e corrisponda a realtà, infatti vi è una persona che cammina; con questa espressione ci riferiamo a qualcosa di esistente, a una persona che sta per compiere una particolare azione; però se cerchiamo di scoprire cos’è che fa sorgere questa idea di persona, di ‘io’, se esso sia identificabile con qualche nostro specifico aspetto, allora non riusciremo a individuarlo con qualcosa dentro di noi.
E scoprendo che non possiamo identificare il nostro ‘io’ con una delle parti che ci costituiscono (i nostri aggregati di corpo e mente) apprendiamo il modo autentico di esistere del sé della persona, ossia un modo dipendente dalla mente che apprende la persona sulla base del suo corpo e mente.
Quando consideriamo un vaso – con una base, una pancia, il collo e così via – non possiamo dire che il vaso sia la sua base, o la sua pancia, o il suo collo, però anche se non possiamo dire che una delle sue parti sia il vaso, sarebbe assurdo sostenere che il vaso non esiste.
Questo tipo di riflessioni, applicate a noi stessi, deve essere ripetuta e prolungata, perché è difficile che in breve tempo possiamo trasformare il nostro abituale modo di concepire il nostro ‘io’.
Siamo esseri umani, e desideriamo ottenere quella felicità che non siamo stati in grado di raggiungere fino a ora, affrancarci dalla sofferenza da cui non siamo stati in grado di liberarci fino a ora, e evitare ciò che è spiacevole. Da ciò derivano il nostro impegno e sforzo per cercare una condizione migliore, e l’eliminazione di ciò che ci fa soffrire.
Il metodo per raggiungere questi due scopi – come abbiamo visto – è la pratica del Dharma, in particolare del suo aspetto in grado di farci sradicare la radice della sofferenza.
Sebbene la comprensione della vacuità tagli alla radice le cause della sofferenza per noi stessi, è comunque necessario considerare anche gli insoddisfacenti tipi di esistenza degli altri, e non limitarci a ricercare solo la nostra liberazione individuale.
Ci si rende conto degli altri e ci si interessa a loro cercando di produrre in noi l’esperienza della mente che realizza la vacuità, avendo compreso come assicuri la libertà dalle attitudini negative e dalla sofferenza. È dall’averla generata noi che possiamo poi comunicare quest’esperienza agli altri, come se incontrando una persona affetta da una malattia da cui noi stessi siamo guariti grazie a una particolare medicina, potremmo consigliarle lo stesso farmaco.
Dal punto di vista mahayana, lo stato che ci permette di guidare gli altri verso la liberazione è lo stato di un buddha. Questo stato del risveglio, di illuminazione, che si ottiene attraverso la propria pratica, lo si raggiunge perché ci si impegna anche nella generazione di quella particolare mente detta appunto ‘pensiero altruistico dell’illuminazione’. 
Ora, questo pensiero altruistico nasce sulla base della compassione, la cui natura è una mente che non riesce a sopportare la sofferenza degli altri, e desidera che tutti ne siano liberi. La considerazione della sofferenza degli altri deve avere origine, innanzitutto, dalla consapevolezza della propria sofferenza, e dal desiderio di emergere da essa.
Questi tre aspetti del sentiero spirituale buddhista (il desiderio dell’emersione definitiva o rinuncia, il pensiero altruistico dell’illuminazione o bodhicitta, e la saggezza che ha generato la visione della vacuità) sono i soggetti di cui stiamo trattando ora.
I tre insieme possono anche essere considerati come il secondo degli Oggetti del rifugio, ossia ‘il rifugio del Dharma’, proprio per il fatto che praticandoli siamo in grado di liberarci dalla sofferenza di tutti particolari reami dell’esistenza condizionata, in particolare da quelli in cui si sperimentano le sofferenze più atroci. La semplice liberazione – quella raggiunta dagli arhat hinayana – è comunque limitata, perché riguarda un singolo individuo, essendo stata motivata solo dal personale desiderio di essere liberi.
Maitreya, nell’Abhisamayalamkara, spiega che per evitare di dimorare nell’esistenza condizionata è necessario avere la realizzazione della vacuità, e per non dimorare poi nella pace della liberazione individuale sono necessari l’amore e la compassione verso gli altri. Per questi motivi, il nirvana ottenuto da un buddha è definitoto ‘nirvana non dimorante’, ossia non dimora né nell’esistenza condizionata – poiché è libero da essa – né nella pace della liberazione personale.
I due fattori della compassione e della saggezza che possiede la visione della vacuità possono essere visti entrambi come strumenti che ci liberano: con la visione della vacuità ci si libera dal samsara, e con la compassione ci si libera dalla pace della liberazione individuale; e queste due menti devono essere coltivate insieme, in modo da evitare i due estremi.
L’oggetto di rifugio Buddha si riferisce a chi ha esposto il Dharma, anche detto ‘rifugio diretto’; il terzo oggetto di rifugio, il Sangha, in senso lato si riferisce alla comunità dei praticanti, a coloro che ci aiutano a sviluppare il rifugio-Dharma e da cui riceviamo sostegno.
 
Abbiamo riesaminato in breve cosa si intende per attitudine all’emersione definitiva e per pensiero altruistico dell’illuminazione, e ora andiamo di nuovo alla visione della vacuità.
Ogni fenomeno, sia esso incluso nel samsara o nel nirvana, sia permanente o composto, ha un’originazione dipendente.
Tutti i fenomeni composti sorgono dalle loro specifiche cause, e comprendendo che ognuno di essi esiste in un rapporto di causa ed effetto, si giunge appunto alla conclusione che sono tutti ‘sorgere dipendente’; questa realizzazione, congiunta alla visione della loro vacuità, è ciò che più compiace i buddha.
Come è corretto stabilire che un germoglio nasce da un seme, un figlio dalla madre, così è corretto stabilire che ogni fenomeno composto ha origine dalle cause e condizioni che lo hanno generato, e quindi dipende da esse. Sebbene i fenomeni composti sorgano dalle loro specifiche cause – per esempio un germoglio da un certo seme – non esiste un germoglio ‘veramente’ esistente che nasca da un seme ‘veramente’ esistente. Vedendo che un germoglio nasce dal seme che lo genera, si comprende anche che il germoglio non è autonomo per il suo sviluppo, ossia non sorge indipendentemente.
Un secondo tipo di considerazioni – che riguarda tutti i fenomeni, composti e no – è il loro dipendere dalle rispettive parti.
Se esaminiamo un orologio, per esempio, lo riconosciamo fatto da un insieme di parti, quindi l’orologio, per la sua esistenza, ha bisogno di quelle sue parti, dipende anche da esse.
Il terzo tipo di considerazioni si riferisce al fatto che non c’è nessun fenomeno che sia esistente in un modo indipendente dalla mente che lo apprende e lo etichetta. Poiché ogni fenomeno è stabilito in dipendenza della mente che lo designa, non esistono fenomeni che hanno un modo di esistenza autosufficiente, diverso dall’essere fenomeni meramente stabiliti dalla mente che li apprende ed etichetta.
Se esistesse un fenomeno che per la sua esistenza non dipendesse dalla mente che lo designa, esso dovrebbe avere un tipo di esistenza particolare, immutabile; ma tramite analisi si arriva a stabilire che nessun fenomeno ha un tipo di esistenza autonoma, a sé stante, intrinseca, per proprie caratteristiche o natura. La vacuità (o mancanza) della falsa modalità di esistenza dei fenomeni, della loro presunta ‘vera’ esistenza, è l’opposta e valida concezione, quella che costituisce l’essenza dell’insegnamento del Buddha.
Se tramite questo genere di analisi, fatta in modo approfondito e ripetuto, otteniamo una diminuzione delle attitudini negative, allora significa che essa procede nel modo giusto, e si sperimenterà alla fine qualcosa di simile a ciò che avviene quando ci svegliamo al mattino, dopo aver sognato, e realizziamo che l’oggetto del sogno non era qualcosa di reale; a quel punto, al momento del risveglio, l’attaccamento o la paura svaniscono.
 
Ora vi chiedo: “La mente che realizza la vacuità cos’è che comprende come non esistente? Se ci fosse una vera esistenza dei fenomeni, in cosa starebbe la contraddizione? Perché con la comprensione della vacuità diminuiscono le attitudini negative?”
 
Risposte degli studenti.
L’odio sorge nei confronti di una persona che noi consideriamo nostra nemica per via che ci ha fatto del male, e guardandola scatta in noi la visione di ‘nemico’. 
Sembra che il nemico esista al di fuori di noi, di fronte a noi, autonomamente, e sembra che sia ‘nemico’ da sempre. Non pensiamo affatto che se lo vediamo come nemico ciò dipende da certe particolari considerazioni; pare invece che sia un ‘nemico’ indipendentemente da quello che noi pensiamo di lui. In tal modo sorge l’odio; ossia tale attitudine negativa sorge dall’errore del vedere il nemico come autonomamente esistente.
All’opposto – se non ci fosse quel tipo di apparenza – sarebbe difficile generare avversione. Se non si avesse quell’immagine del nemico come esistente indipendentemente dal giudizio che abbiamo di lui, da come noi lo percepiamo, allora ci renderemmo conto  che è insensato provare odio nei suoi confronti.
Analizzando poi un oggetto verso il quale nutriamo attaccamento, ciò implica che vediamo tale oggetto come piacevole. A noi sembra che esso abbia un suo proprio potere, che le sue caratteristiche siano indipendenti dalla nostra mente e dal modo in cui lo percepiamo, invece l’identificazione dell’oggetto come attraente è unicamente frutto di una nostra propria proiezione!
Quando realizziamo che un oggetto di per se stesso non possiede alcuna caratteristica intrinseca (di essere spiacevole oppure desiderabile) ma che queste caratteristiche vengono solo attribuite dalla nostra mente, allora l’oggetto stesso perde la sua capacità di farci generare odio o attaccamento, smette di essere una base sulla quale queste due emozioni disturbanti possono essere attivate.
La discriminazione che facciamo tra coloro che sono nostri nemici e coloro che sono nostri amici è anch’essa basata su questa confusione che ci fa apprendere le persone in quel certo particolare modo, perché attribuiamo loro delle caratteristiche e ci sembra che esistano con quella natura, non che siamo noi a considerarle rispettivamente un nemico o un amico. È a causa dell’errata e confusa visione che abbiamo delle cose che sorgono le emozioni negative, le quali non potrebbero svilupparsi se essa non esistesse o fosse diversa. Consideriamo tre persone: un bodhisattva e una persona ordinaria, ambedue picchiate con un bastone da una terza persona; ebbene, il primo riterrà questa un’aiutante nella sua pratica della pazienza, mentre la persona ordinaria vedrà chi la picchia come un nemico.
Quindi possiamo osservare che la medesima persona può essere considerata in due modi completamente diversi, e ciò sta a indicare che non si è né nemico né amico in modo intrinseco. È a causa della concezione errata che fabbrica la reale esistenza di un particolare fenomeno che sorge poi una particolare reazione di tipo emotivo. Facendo un altro esempio, il tessuto di cui è fatto l’abito di Ghesce-là avrebbe potuto essere un’altra cosa, ma ora è l’abito di Ghesce-là.
(Riprende a parlare Gheshe-là)
Si, è più o meno così. Prima del tessuto c’era il filo, dopo è diventato un abito, e prima di essere considerato ‘l’abito di un certo monaco’ non era l’abito di quel monaco. Allo stesso modo, Mariangela è una persona che è conosciuta come ‘Mariangela’ quando gli altri cominciano a chiamarla ‘Mariangela’, e la considerano ‘Mariangela’. Così poi si dice che Mariangela è lì, o Caterina è lì, o Lobsang è lì.
Ogni fenomeno esiste in un certo modo perché è designato come tale dalla mente, però il modo in cui gli oggetti e le persone ci appaiono e sembrano esistere è di essere indipendenti, di esistere lì al di fuori e staccati da noi; sembrano non dipendere in alcun modo dalla nostra mente, dalle nostre percezioni, da come noi li apprendiamo, ma in realtà questo modo in cui i fenomeni ci appaiono non corrisponde a verità.
Quando si dice che i fenomeni e le persone non esistono in modo ‘vero’, ciò non vuol dire che non esistono affatto degli degli oggetti e degli uomini veri. Gli uomini esistono; si afferma soltanto che non esistono in modo autonomo, indipendente, così come appaiono alla nostra coscienza ordinaria. 
Se pensassimo che le cose non esistono del tutto – e non solo nel senso di non esistere intrinsecamente ed autonomamente – allora rischieremmo di cadere in una visione nichilistica in relazione alla vita e a certi aspetti del Dharma, in particolare alla legge di causa ed effetto. Un tessuto rosso è rosso dopo che è stato tinto, anche se a noi appare come fosse rosso da sempre.
Allo stesso modo, i fenomeni assumono certe caratteristiche solo quando esse vengono designate in un certo modo.
È difficile in poco tempo addentrarsi in tutte le spiegazioni che portano alla comprensione della vacuità, ma occorre almeno capire questo: “I fenomeni sono vuoti, però questa loro vacuità non va intesa come una totale loro non-esistenza, bensì indica che la loro esistenza è priva di indipendenza e autonomia, cioè essi sono vuoti, o mancano, di esistenza intrinseca”.
Se associamo ai fenomeni esistenti la concezione di una loro intrinseca esistenza e vedendo un fenomeno pensiamo che per il fatto che è lì deve esistere in un modo indipendente, o se ci riferiamo alla vacuità di un fenomeno pensando che corrisponda alla totale non-esistenza del fenomeno stesso, allora questi sono entrambi errori che non condurranno al risveglio.
È quindi necessario fare distinzione fra ‘esistente’ e ‘veramente esistente, e fra ‘non esistente’ e ‘non veramente esistente’.
Un vaso, per esempio, non è ‘veramente’ esistente sebbene non sia inesistente; e il vaso è esistente, sebbene non sia ‘veramente’ esistente. Allo stesso modo qualsiasi altro fenomeno è esistente ma non in maniera ‘vera’, indipendente; d’altra parte ogni fenomeno è privo di ‘vera’ esistenza sebbene non sia inesistente.
La non-esistenza è una cosa che anche convenzionalmente può essere provata da una mente concettuale; infatti riferendoci alle ‘corna di un coniglio’ esse sono del tutto non esistenti perché non possono essere apprese da nessuna mente valida, e sono sicuramente inesistenti anche delle corna sulla nostra testa.
La corretta comprensione della vacuità, o giusta visione del modo in cui i fenomeni esistono, è quella di considerarli privi di una ‘vera’ esistenza, come mere apparenze, ossia qualcosa di simile a quando sogniamo, e la coscienza non è in grado di realizzare che gli oggetti e persone del sogno non sono reali, che non sta succedendo qualcosa corrispondente a realtà; quando però ci svegliamo siano in grado di accertare che le immagini sognate erano solo apparenze.
E possiamo anche usare la similitudine di quando ci guardiamo allo specchio e l’immagine del nostro volto sembra in un primo momento esistere nello specchio stesso, poi però giungiamo subito alla conclusione che si tratta solo di un riflesso; oppure pensare all’emanazione magica di un mago, che crea l’illusione di un coniglio: sebbene l’immagine prodotta dia l’impressione che ci sia un vero coniglio, in realtà si tratta solo di un’apparenza, senza un corrispondente oggetto reale.
In pratica, tramite la considerazione che i fenomeni sono come un’illusione (5) svanisce la concezione che li apprende come intrinsecamente esistenti, e tramite la considerazione che i fenomeni non esistono intrinsecamente ma in modo interdipendente si va al di là della concezione che apprende i fenomeni come totalmente non esistenti.
Comprendendo che i fenomeni sono una mera apparenza si arriva a capire che sono vuoti di esistenza intrinseca, e comprendendo che sono vuoti di esistenza intrinseca, si arriva a capire che esistono come mere apparenze; in questo modo si eliminano i due estremi di eternalismo e nichilismo, che sono di ostacolo e in contraddizione con la visione della vacuità.
Comunque su queste cose occorre riflettere a fondo e ripetutamente, e impegnarsi in diverse altre dettagliate analisi, per far sì che abbiano un reale impatto sulla nostra mente.
Inoltre, in parallelo, tramite le diverse pratiche del Dharma devono essere portate avanti due fondamentali attività:
• la rimozione o purificazione delle azioni negative,
• la generazione o accumulazione di energia positiva.
Esse devono essere compiute proprio perché quel tipo di analisi riescano a produrre un radicale effetto su di noi, e lo si deve fare con continuità, non saltuariamente e per brevi periodi, altrimenti non si otterrà alcun risultato. È simile a ciò che succede se si vuole coltivare una pianta: questo richiede che le si dia acqua e cure continue, mentre se la annaffiamo solo una volta ogni tanto, lasciandola spesso senza acqua, è difficile che dal germoglio iniziale possa nascere un fiore.
È importante dedicare il nostro tempo libero alla pratica del Dharma. Se lo pratichiamo, o tentiamo di praticarlo, solo quando ci troviamo in un Centro buddhista, o in un luogo dove si suppone se ne portino avanti le relative attività, paragonando la durata di questi periodi con il resto della nostra vita ciò risulta privo di senso, e non produrrà un gran risultato. Occorre trasformare la nostra mente malevola e priva di gentilezza in una mente flessibile e amorevole. Anche se vogliamo costruire un orologio, dobbiamo assemblare tutte le sue parti affinché funzioni e possa essere venduto, e se tralasciamo qualche pezzo non solo non riusciremo a venderlo, ma neppure sarà in grado di funzionare. Così, se lasciamo la nostra mente nella situazione in cui si trova adesso, allora non vi sarà possibilità di coltivare concezioni non erronee. Fate di voi una persona che si applica, che non si lascia andare alla pigrizia, ma si impegna con la propria mente fino raggiungere un certo grado di libertà dalle emozioni negative! Quando ci accorgiamo che le nostre attività sono di danno agli altri, dobbiamo riflettere che questo non è solo rivolto agli altri, ma che alla fine ricadrà principalmente su noi stessi. Avendo consapevolezza nella nostra meditazione di questi risultati di sofferenza, dovremmo arrestare il modo negativo di agire nei confronti degli altri esseri. Se invece si sta compiendo un’attività positiva bisogna rendersene conto e rafforzarla, nel senso che occorre generare la determinazione di continuare a svolgerla, senza scoraggiarsi o abbandonarla. In sintesi, tenete presente che ogni azione motivata da collera, attaccamento e ignoranza non fa altro che lasciare in voi delle predisposizioni di tipo negativo; viceversa, ogni azione motivata da amore, compassione e altre attitudini valide, lascia impronte e inclinazioni positive. Leggete anche libri di Dharma che espongono i vari soggetti: per esempio, dovreste leggere e riflettere ogni tanto sulle spiegazioni che ho dato sul Bodhisattvacharyavatara (6). Gli insegnamenti di Dharma possono risultare difficili da capire e da integrare nella nostra vita, tuttavia il loro contenuto e significato in relazione alla nostra vita quotidiana diventa via via sempre più chiaro. Ho visto che in Centri di Dharma che operano da molti anni ci sono persone che hanno facilità a comprendere gli insegnamenti; in quelli aperti da poco, invece, con molti principianti, si riscontrano più difficoltà. La cosa importante è che cambiate le vostre attitudini, facendole diventare positive tramite un addestramento continuo. Questo è il modo in cui una persona si rende ‘nobile’: non attraverso un particolare abito o comportamento esterno, ma tramite una radicale trasformazione del proprio modo di pensare. Se tale trasformazione avviene, sarete amati da quanti vi sono attorno; se invece lascerete la mente indomita, allora neppure i vostri figli genereranno sentimenti amorevoli verso di voi. Quando due persone vivono insieme – per esempio maestro e discepolo, marito e moglie, e così via – se esse hanno una mente positiva, ben disposta, anche nel caso non abbiano molto da mangiare, vivranno comunque abbastanza felicemente; se invece hanno un mente negativa, anche vivendo nell’agiatezza non staranno mai bene insieme. Litigando con qualcuno non si dice: “Tu hai avuto un atteggiamento positivo verso di me” ma al contrario “tu mi hai fatto questo, mi hai fatto quello!” La mente positiva è quella da cui si sviluppano situazioni armoniose, da una mente negativa scaturiscono invece solo conflitti. Così, quando si trasforma la mente da negativa in positiva diminuiscono anche dispute, problemi e sofferenze. Studiate e praticate i tre aspetti del sentiero, impegnatevi, e otterrete una felicità duratura!
Ora dedichiamo i meriti creati durante questo nostro incontro. Grazie a tutti.
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